“Assumerti è stato un investimento. Ora dimostrami che ne valeva la pena.”
Una frase che non mi è mai stata detta apertamente, ma che è stata il sottofondo di tante conversazioni e dinamiche che ho vissuto sia in startup early-stage che in scale-up.
In un primo momento, pensavo che questo approccio fosse naturale, che facesse parte del gioco: il manager ti assume, ti dà fiducia (almeno inizialmente), ma poi si aspetta che tu dimostri costantemente il tuo valore.
Ma col tempo, ho capito che la realizzazione di questa aspettativa dipende completamente dalle circostanze in cui ti trovi.
A volte questa pressione può essere positiva, portando a performance elevate e risultati concreti. Altre volte, invece, diventa una trappola in cui non solo devi raggiungere risultati, ma anche combattere per dimostrare che sei adeguata per quella posizione e per essere lì, con l'aggravante che non basta solo il tuo lavoro, ma devi continuamente difendere le tue idee — anche se sono migliori.
Se è successo anche a te continua a leggere, provo a raccontarti cosa ho imparato.

Manager tossici: cosa succede nelle startup
Hai mai lavorato con un manager che ti faceva dubitare del tuo valore ogni singolo giorno? Io sì. Più di una volta.
La prima volta è successo nella primissima startup in cui ho lavorato a Londra.
Era il 2012, era un'app “alla Skype”, eravamo in 5 nel team.
Il founder non aveva la minima idea di come costruire il prodotto e fare crescere l’azienda, ma era convinto che tutto dipendesse dalla sua "visione".
La comunicazione era inesistente, le idee fluttuavano nell’aria senza una chiara direzione. Io mi occupavo di digital marketing. La sua convinzione?
Che ogni cosa dovesse passare attraverso lui, anche se non aveva competenze in prodotto o marketing. Era convinto che la sua esperienza precedente, in un’agenzia, potesse essere un benchmark per definire la strategia della startup.
Da un lato, mi sentivo privilegiata ad essere parte del progetto.
Dall’altro, mi trovavo a dover dimostrare costantemente che le mie proposte di contenuti e post, basate su dati concreti, erano più valide delle sue intuizioni, spesso scollegate dalla realtà.
Nel tempo, ho imparato a riconoscere queste persone da segnali precisi, come per esempio:
fissano obiettivi ambiziosi ma vaghi, usando tante parole e pochi fatti;
non hanno un’idea concreta di come raggiungere quegli obiettivi, non sanno cosa significa fare prodotto o fare marketing (e spesso non conoscono nemmeno la differenza);
assumono le persone per le loro competenze e poi… non si fidano. Ogni proposta viene accolta con scetticismo, ogni idea dev’essere giustificata all’infinito — non perché manchino i dati, ma perché non viene da loro.
E allora, finisci per passare più tempo a spiegare che a fare.
A difenderti più che a costruire.
Come sopravvivere?
In quegli ambienti, ho sviluppato un’ossessione (utile) per i test.
🦸♀️ Testare le idee è diventato il mio super potere: non più chi ha l’idea migliore, ma quale funziona meglio. È stato il mio modo per spostare il discorso dalle opinioni ai fatti. E spesso era l’unico modo per farmi ascoltare.
Oggi questa competenza e approccio (che applico a 360° anche nella mia vita privata) è diventata il maggior vantaggio competitivo nel mio curriculum.

Manager tossici nelle scale-up
Quando sono approdata nelle scale-up pensavo di aver superato il problema. Immaginavo che in aziende più strutturate, con team HR e people business partners, dove entravo in team più grandi con competenze verticali e obiettivi definiti, e in cui riportavo a c-level, la dinamica fosse diversa.
Invece mi sbagliavo.
Il problema non era scomparso — si era semplicemente evoluto, radicandosi in un contesto più ampio, più complesso e politico.
In queste realtà, ho avuto la fortuna di lavorare con manager diretti competenti, spesso anche più esperti di me in alcune aree. Ma il vero ostacolo non era solo lì.
Il problema erano anche tutti gli altri stakeholder: figure laterali con cui dovevo collaborare, allineare strategie e prendere decisioni, anche quando loro non erano d’accordo, nonostante fossi stata assunta per prendere quella decisione.
Molti di loro avevano meno esperienza di me ma si sentivano comunque legittimati a imporre la loro visione. E quando non venivano ascoltati, saltavano i passaggi e andavano direttamente a lamentarsi dal mio manager.
Inoltre nelle scale-up, le situazioni di tossicità sono più complesse perché entrano in gioco le dinamiche politiche: alleanze silenziose, giochi di potere tra team e persone, decisioni prese non in base alla competenza ma a chi parla con chi o a chi è più visibile nei canali giusti, anche a seconda delle implicazioni di quelle decisioni. In quel contesto, non bastava avere ragione: dovevo capire come dirla, a chi dirla, e quando.
Il risultato? Di nuovo, mi ritrovavo nella stessa situazione di prima: dover giustificare tutto. Il mio lavoro, le mie scelte, le mie priorità.
A volte, persino la mia presenza lì.
In questi contesti, ho capito che non bastava fare bene il mio lavoro o dimostrare di raggiungere l’obiettivo: dovevo anche proteggermi.
E sbloccare nuovi livelli di sopravvivenza.

🚩 6 segnali di tossicità che ho vissuto sulla mia pelle (e come ho imparato a sopravvivere)
1) 🔍 Micromanagement estremo
"Puoi girarmi una bozza entro mezzogiorno, così ti dico se puoi continuare?"
Ero stata assunta per gestire in autonomia una strategia di product marketing su un Paese, ma ogni decisione richiedeva l’approvazione, anche la più banale.
Mi sentivo come un’esecutrice sotto esame costante.
Se poi si aveva a che fare con i numeri, c’era sempre la domanda fatta apposta per farti dubitare del tuo ragionamento sul numero che stavi analizzando.
💡 Come ho imparato a gestirlo:
Ho iniziato a creare dei momenti di allineamento predefiniti, con un piano chiaro e una lista di azioni su cui non serviva supervisione, trasformando le chiacchiere in pragmaticità. Ho inoltre espresso in modo molto chiaro che per lavorare bene avrei avuto bisogno di maggiore autonomia perché quell’approccio mi creava confusione, data da ansia ed estrema pressione.
Ho imparato che in una scale-up non basta avere ragione o fare bene il proprio lavoro se sei in un ambiente dove la fiducia non è il default, ma una battaglia quotidiana dove devi continuamente dimostrare il valore del tuo lavoro e spiegare quali sono le condizioni per te ottimali per portarlo avanti.
Il paradosso? Molti di questi manager erano convinti di essere visionari.
Ma non c’è visione senza pragmatismo. E non c’è leadership senza fiducia.
2. Manipolazione emotiva (gaslighting)
"Se ti senti messa da parte, forse sei troppo sensibile, troppo emotiva o poco strategica."
Ero anche io nel team di leadership della country ma non venivo inclusa nei meeting, e quando venivo invitata, le mie idee venivano ignorate. Ho quindi espresso il mio disagio con il mio manager. Mi ha fatto sentire che fosse tutto nella mia testa. E ci ho anche creduto, soprattutto quando mi ha fatto capire fosse la conseguenza di una mia debolezza.
💡 Come ho imparato a gestirla:
Ho iniziato a documentare fatti e comportamenti (email, call, task, feedback).
Quando le sensazioni vengono supportate da elementi oggettivi, è più facile distinguere tra intuizione e manipolazione.
E da allora, ogni volta che mi arriva un feedback che giustifica questo comportamento cerco di fare domande per capirlo e identificarlo, invece di prendermela sul personale.
Ho imparato a parlarne con persone esterne, a volte anche un amico con esperienza in tech o un’ex collega, possono fare miracoli, perchè ti ricordano come sei davvero.
Se poi ti avvali dell’aiuto di una coach o di una psicologa, ancora meglio perché riesci davvero a dare delle definizioni precise alle situazioni.
In questo post racconto molto bene una buona parte di questo learning👇
Se invece volete avere spunti su come dare feedback ne ho scritto qui 👇
3. Appropriazione del lavoro o delle idee altrui
"Bella questa analisi. L’ho presentata oggi in call con il board."
Una volta ho preparato un piano dettagliato per lo sviluppo di una strategia EMEA, che poi uno dei miei stakeholder ha presentato come suo senza che io ricevessi un riconoscimento. Quando ho fatto notare la cosa, mi ha risposto: “Conta il risultato, no? È un lavoro di team”
💡 Come ho imparato a gestirlo:
Ho iniziato a condividere piani e deliverable in maniera trasparente (Slack, Notion, email), segnando chiaramente le ownership e gli sviluppi delle idee.
E quando qualche collega in una chat riscrive un’idea inizialmente nata da me lo faccio notare, in modo elegante.
Ho imparato a documentare tutto, non solo prima e durante le performance review ma in tutti i meeting con il mio manager e gli altri stakeholder.
Mi prendo lo spazio per raccontare il perché dietro le mie scelte — non solo cosa ho fatto. Purtroppo il riconoscimento del risultato parte da noi, se aspettiamo che sia il nostro manager o gli stakeholder con cui collaboriamo a farlo di loro iniziativa probabilmente aspetteremo per sempre.
4. Comunicazione passivo-aggressiva
“Magari la prossima volta ti do una mano io, così viene fatto in modo più efficace.”
Ho ricevuto spesso feedback vaghi e poco costruttivi: "Lo schema è un po’ confuso", "La pagina non è chiara", oppure "Mi aspettavo qualcosa di diverso". A volte con la chicca finale: "Con tutta la tua esperienza, sinceramente, pensavo a qualcosa di meglio." Il problema? Le aspettative non erano mai state esplicitate.
A prima vista sembra un’osservazione legittima, magari persino razionale. Ma il modo in cui è formulata contiene più livelli problematici:
Nessuno aveva chiarito obiettivi, criteri o priorità. Eppure, il giudizio arrivava lo stesso — implicito, ambiguo, e difficile da contestare.
Commenti che ti lasciano in bilico, come se fossi tu a non capire — anche quando avevi seguito le poche indicazioni disponibili. E sempre, ovviamente, con il sorriso.
🎭 Perché è passivo-aggressivo?
❌ Non è un feedback chiaro o utile.
Non dice cosa non andava bene, né cosa si aspettava in modo concreto. È un giudizio, non una valutazione.⚠️ Usa l'esperienza come leva per colpevolizzare.
Invece di aiutarti a migliorare, ti fa sentire inadeguata nonostante le tue competenze. È come dire: "Hai deluso le aspettative", senza darti strumenti per capire come o perché.🎭 È formulato in modo ambiguo.
Non è apertamente aggressivo, ma contiene un tono velato di critica e disappunto, che lascia te con il dubbio: "Ho davvero sbagliato io, o mi stanno solo sminuendo?"🌪️ Crea un clima di tensione invece che confronto.
Non apre a un dialogo. Non dice: “Possiamo rivedere insieme le aspettative?”, ma mette tutto il peso su di te, come se fosse ovvio che avresti dovuto “sapere meglio”.
💡 Come ho imparato a gestirlo:
Ho iniziato a chiedere chiarimenti in modo neutro ma fermo: “Cosa intendi per più efficace?” Oppure “Qual era l’aspettativa, così posso allinearmi meglio?”
Esplicitare i non detti toglie potere a chi comunica in modo ambiguo. E se le risposte continuano a non arrivare, è un segnale chiaro: non è un problema di performance, è un problema di leadership.
Costringere chi usa passivo-aggressività a esplicitare il messaggio spesso lo disarma. E, soprattutto, documentare anche questi scambi aiuta a costruire un contesto.
Ho imparato a riconoscere questo tipo di feedback come passivo-aggressivo che non è
educato.
È un feedback passivo perché non è diretto, non ti dice chiaramente cosa non va.
È aggressivo perché ti colpisce sul piano personale e mina la tua sicurezza.
Alcuni feedback sembrano “gentili”, ma in realtà colpiscono duro. Non ti aiutano a crescere, ti fanno dubitare di te. Il rispetto non è solo forma: è anche chiarezza, confronto e responsabilità
Queste frasi sono spesso usate da persone che non vogliono (o non sanno) dare feedback sinceri e costruttivi, ma vogliono comunque farti sentire che hai fallito.
Se il feedback non arriva dal tuo manager, parlagliene: ti può aiutare a gestirlo.
Se arriva dal tuo manager ti consiglio di scappare.
5. Favoritismi
“Guarda come lo fa xxx, potresti prendere esempio.”
In una scale-up in cui ho lavorato, ho notato che alcune persone avevano accesso privilegiato a informazioni, conversazioni e decisioni strategiche.
Non perché fossero necessariamente più competenti, ma perché andavano più spesso in ufficio, avevano il “giusto” background, o semplicemente lavoravano lì da tanto tempo e avevano già costruito solide alleanze interne.
Quando chiedevo un confronto, mi veniva risposto che “quella persona è davvero molto proattiva, dovresti prendere esempio”, anche se i loro progetti a volte erano il frutto di un team oppure anche solo di operare in un contesto che meglio li valorizzava: per esempio seguivano il mercato principale dove si investivano la maggior parte di budget e risorse.
Il risultato? I loro contributi venivano percepiti come più rilevanti o strategici, anche quando erano meno solidi dei miei. Mentre io dovevo continuamente giustificare ogni decisione, loro ricevevano fiducia “di default”.
🧠 Spoiler: non era mentoring, era favoritismo.
Se nel mio caso dovevo continuamente dimostrare il mio valore — altri venivano elogiati per metà delle cose che facevo anche io.
💡 Come ho imparato a gestirlo:
Ho iniziato a costruire alleanze orizzontali con persone in azienda che apprezzavano il mio contributo, anche fuori dal mio team, a cui ho chiesto consigli e supporto. Ho smesso di cercare approvazione da chi non era disposto a vedermi. A volte il riconoscimento non arriva da chi ha più potere, ma da chi ti vede davvero. E da lì, a volte, si costruisce molto di più.
Ho imparato a fare domande e a capire come potevo migliorare imparando da loro. Nelle scale-up non basta essere “bravi a fare” bisogna anche “essere bravi a raccontare” quello che si fa e a dimostrarne l’impatto.
6. Mancanza di protezione
“Non posso entrare in mezzo a queste dinamiche.”
Uno dei ruoli chiave di un manager è proteggerti: darti contesto, schermarti dal caos, permetterti di lavorare con focus e fiducia. Invece, mi sono spesso trovata sola. Quando stakeholder esterni al mio team criticavano scelte già condivise o tentavano di mettere in discussione il mio ruolo e le mie responsabilità, il mio manager restava in silenzio. E nell’ultima volta che questo è successo ha semplicemente acconsentito alle critiche fatte da altri stakeholder senza in realtà dire nulla in più.
Altre volte cercava di mediare senza prendere davvero posizione. Il risultato era che mi vedevo costretta a dover difendere da sola il mio lavoro, anche quando le decisioni erano state allineate insieme.
💡 Come ho imparato a gestirlo:
Ho capito che un manager è una persona che non solo ti supporta ma è qualcuno che in caso di confusione o conflitti dovrebbe essere chi dice quello che serve ad alta voce con te. Io l’ho fatto per il mio team e so cosa significa prendere posizione. Quando sei dall’altra parte e quel supporto non arriva, è legittimo sentirsi traditi e chiedersi se stai nel posto giusto.
E a volte, la mossa più sana è cambiare contesto prima che ti bruci del tutto.
Ho imparato a osservare più attentamente non solo come un manager parla con me, ma anche come parla di me quando non ci sono. Se non ti difende, non ti sostiene, e non chiarisce la direzione con il resto dell'organizzazione, è legittimo chiedersi: questa persona è davvero un leader, o solo un esecutore con un titolo?
In fondo, se non ti protegge, non ti guida. E se non ti guida, perché dovrebbe avere il potere di decidere per te?
Se ti sei riconosciutə in uno o più di questi segnali, sappi che non sei solə.
Capirlo è il primo passo per smettere di giustificare ciò che non va — e iniziare a scegliere ambienti (e persone) che ti vedano per davvero.
Tutti noi, a ogni livello, meritiamo rispetto, fiducia e alleanze sane. Non sono un bonus. Sono la base per fare il nostro lavoro al meglio.
Per cui, ricordati che prima di accettare qualsiasi offerta, fare un check di quel manager che dovrebbe diventare il tuo con chi ci è già passato non farà di te una brutta persona, anzi. Chiedi sempre a chi ha avuto quel manager in passato su cosa dovresti fare attenzione!
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La prossima sarà una edizione straordinaria che annuncia una grande novità, nel frattempo speriamo che questo sole primaverile non ci abbandoni.
Grazie per avermi letto e soprattutto grazie a chi ho incontrato questa settimana che mi ha spinto ad affrontare pubblicamente questo argomento 🫶
Alessia
Grazie Alessia, come sempre le tue esperienze, nonostante arrivino da un campo professionale a me lontanissimo, trovano eco anche nel mio. Potrei sostituire la parola "manager" con regista, le compagnie/produzioni teatrali sono come le aziende. Con l’aggravante che in Teatro il lavoro è precario e si lavora col materiale umano, il prodotto siamo noi, queste dinamiche sono ancora più tossiche.
vorrei tanto sapere quanti di quest* manager erano maschi, tipo in percentuale.