Autopsia gentile di Freeda
Cosa imparare dalla startup che voleva rivoluzionare i media femminili
Questa settimana ho riflettuto molto sulla chiusura di Freeda.
La fine del media femminista è stato infatti oggetto di molteplici post critici da parte della tifoseria amica / nemica.
All’inizio ero scettica all’idea di aggiungermi a tutte queste analisi, ma poi ho pensato a quanto sarebbe stato utile, come spesso accade nel Regno Unito, un vero “post mortem” da parte dei founder. Purtroppo in Italia questo tipo di condivisione è ancora rara, e le analisi costruttive che vanno oltre la superficie, fatte dai founder o dai team che hanno costruito, includendo le sfide vissute, sono poche.
Per questo credo sia non solo legittimo, ma importante provare a offrire la mia interpretazione come startup operator con lunga esperienza nel settore, per dare una chiave di lettura alternativa rispetto alle conclusioni “le startup in Italia non ce la fanno”.
Negli ultimi cinque anni ho incontrato molti founder italiani, e una cosa che mi ha colpito è la mentalità con cui affrontano il lancio e i primi anni di questi business. Spesso, almeno per metà di loro, il problema principale è ottenere più visibilità per far conoscere il brand e vendere i propri servizi.
Io invece credo che quel 50% dovrebbe fermarsi un attimo e chiedersi: qual è davvero il problema che sto cercando di risolvere, per chi, nello specifico?
Solo dopo aver trovato chiarezza sui temi fondamentali come questi, si può lavorare con metodo per trasformare quella soluzione in un prodotto che funzioni davvero.

Perché, alla fine, il vero successo di una startup non si misura in like o follower, ma nella capacità di costruire qualcosa che risolve un problema reale
Il caso Freeda: contenuti femministi e modello di business fragile
Fondata nel 2016, Freeda è nata con l’ambizione di rivoluzionare il modo in cui i media parlavano alle donne, portando al centro dell’attenzione temi femministi, storie di empowerment e inclusività attraverso un linguaggio visuale forte e nativo per i social media.
In un panorama mediatico italiano ancora molto tradizionale, dove le voci femminili erano spesso marginalizzate o trattate in modo stereotipato, Freeda ha colto un vuoto evidente, riuscendo a posizionarsi rapidamente come un brand rilevante per una generazione giovane, social-first e culturalmente più sensibile.
Negli stessi anni, il mondo dei digital media era in fermento anche all’estero: in UK e negli Stati Uniti cresceva il successo di piattaforme come Refinery29, Girlboss, a cui seguirà anche Fem in Italia con il gruppo Gedi.
Tutte realtà editoriali che, con modelli diversi, stavano cercando di parlare alle donne millennial e Gen Z con un approccio editoriale più fresco e rilevante, sull’onda delle attiviste influencer femministe (fenomeno che oggi mi domando se non sia anch’esso ormai a un giro di boa).
In questo contesto, Freeda ha cercato di replicare un modello internazionale in un mercato, quello italiano, culturalmente ed economicamente meno ricettivo, puntando tutto sulla crescita social e sulle campagne sponsorizzate dai brand.
La scommessa nel 2016 era valida, l’esperienza dei founder anche, ecco perché i €27M di fondi ricevuti dal 2016 al 2019 sembravano molti ma non eccessivi.
Ma entriamo nel vivo dell’analisi, quali sono stati i problemi?
Disallineamento tra target, pain / need e value proposition
La community “in affitto”: mancanza di un prodotto e i rischi di dipendere solo dai social
Espansione internazionale senza product-market fit
Analisi del target e della value proposition: bisogni non soddisfatti
Guardando più da vicino, il pubblico di Freeda, principalmente donne giovani, millennial e Gen Z, interessate a temi sociali, culturali e di empowerment, aveva bisogni sia emotivi, legati a education e empowerment, sia concreti e specifici, come la carriera, la salute mentale, la conciliazione vita-lavoro, la discriminazione e altre sfide quotidiane.
Analizzando questi temi da un punto di vista tecnico, quello del product marketing, e definendo con chiarezza l’Ideal Customer Profile (ICP) emerge che queste utenti cercano non solo ispirazione, ma soluzioni funzionali per i loro job to be done: ovvero, risolvere problemi pratici per migliorare concretamente la loro vita.
La proposta di Freeda, tuttavia, si fermava al racconto di storie di successo o di role-models in molteplici canali, da instagram ai podcast, senza fornire strumenti, consigli applicabili o esperienze proprietarie made-by-Freeda in grado di risolvere realmente quei pain points.
In termini di value proposition, questo significa che pur offrendo supporto emotivo e culturale, mancava la componente funzionale necessaria per generare un cambiamento tangibile rispetto allo status quo.
Entrando quindi nel core dell’analisi, il gap di Freeda emerge chiaramente: il loro modello non rispondeva pienamente ai bisogni reali del target. Il segmento rappresentato dall’ICP alla ricerca di soluzioni concrete per gestire la carriera in ambienti spesso discriminatori, di supporto per la salute mentale, o di bilanciamento tra vita personale e professionale, con tutte le difficoltà e discriminazioni quotidiane che ne derivano, non ha trovato queste soluzioni in Freeda. L’offerta della piattaforma si limitava a un supporto culturale ed emotivo, senza prodotti o servizi concreti né strumenti pratici capaci di affrontare quei pain points specifici.
In termini di job to be done: la piattaforma non riusciva a soddisfare i bisogni funzionali, limitando così la fidelizzazione, la percezione di valore e la crescita sostenibile nel lungo periodo (che non è rappresentata dai followers).
Se la community poteva trovare ispirazione e punti di vista interessanti, raramente otteneva supporto concreto o un miglioramento tangibile nella propria vita grazie a Freeda. Questo si traduceva in una scarsa stickiness verso il brand, oltre a problemi interni legati alla definizione delle metriche di acquisizione e retention, date dall’assenza di una piattaforma proprietaria che potesse misurarle efficacemente.
Per una startup, questo rappresenta un problema cruciale: un divario tra problemi percepiti e servizi offerti, e la mancanza di un prodotto o di un’esperienza specifica che possa colmare questo gap.
La community “in affitto”: mancanza di un prodotto e rischi di dipendere dai social
Un altro aspetto critico del modello di Freeda era che la sua community viveva quasi esclusivamente su piattaforme di proprietà di terzi, come Facebook e Instagram. Questo significa costruire una community “in affitto”, senza il pieno controllo sulle regole, sui costi e sulla distribuzione dei contenuti.
È un po’ come costruire un Airbnb dentro un hotel di lusso: l’ambiente è curato, bello e di alta qualità, ma non ne controlli né i costi né le regole. Dipendi delle decisioni dell’hotel, che può cambiare prezzo, limitare l’accesso o addirittura chiuderti la porta in qualsiasi momento.
Questa dipendenza rende il modello fragile, limitando la capacità di creare un legame profondo e duraturo con il proprio pubblico e vincolando il business a piattaforme esterne sulle quali non si ha alcun potere decisionale.
Un’ulteriore conferma arriva dal mondo degli influencer più noti, come Chiara Ferragni o Clio, che non sempre lavorano in modo strategico a un loro business, oltre a quello legato al personal branding. Prendiamo ad esempio Chiara Ferragni, la cui popolarità si è costruita principalmente su Instagram. Nonostante il suo enorme seguito, la capacità di monetizzare il suo brand attraverso il proprio business è stata limitata, vedremo nei prossimi mesi se sarà in grado di rilanciarli ma al momento la crisi del suo personal brand ha avuto conseguenze anche sul suo business. Diverso invece l’esempio di Clio, che ha lanciato un e-commerce che si basa sulla sua immagine con molteplici linee di prodotto e che non dipende esclusivamente dai social.
Questo permette di avere più controllo, più stabilità e di mitigare i rischi legati ai continui cambiamenti delle piattaforme.
Oltreoceano invece, Gwyneth Paltrow ha trasformato la sua popolarità in un vero e proprio business con Goop, un lifestyle brand che è diventato un business da milioni di dollari. Goop non dipende esclusivamente dai social, ma ha costruito un ecosistema di prodotti, eventi e contenuti proprietari, consolidando un rapporto diretto e duraturo con la sua audience.
Questi casi dimostrano che, per costruire un business solido e sostenibile, non basta attrarre e intrattenere una community su piattaforme di terzi.
È fondamentale creare prodotti, servizi o esperienze proprietarie che possano trasformare l’attenzione in valore, riducendo la dipendenza da canali “in affitto” e costruendo un rapporto autentico e duraturo con la propria target audience oltre che un business model solido con metriche funzionali.
Espansione internazionale senza product-market fit
Un errore comune tra le startup è la tentazione di entrare in nuovi mercati prima di aver trovato un vero product-market fit nel mercato d’origine. Senza una validazione solida del modello di business, sia in termini di scalabilità del pubblico che di prodotto, l’internazionalizzazione rischia di amplificare i problemi anziché le opportunità.
Se il modello di una startup scricchiola in casa, espandersi all’estero può significare solo aumentare i costi, moltiplicare le inefficienze operative e disperdere il focus.
Un esempio emblematico è Refinery29: partendo da un posizionamento simile a Freeda, era riuscita a costruire un brand riconosciuto e una community ampia. Nel 2019 viene acquisita da Vice Media, in un’operazione che sembrava segnare l’inizio di una nuova fase di consolidamento dei media digitali. Ma così non è stato: Vice Media è entrata in bancarotta nel 2023, travolta da un modello fragile e dalla difficoltà di adattare contenuti, formati e metriche a mercati diversi. Refinery29, come molti altri progetti, non è riuscita a evolvere con la stessa velocità del panorama media e ha finito per perdere rilevanza e sostenibilità.
Al contrario, chi ha resistito (e in alcuni casi prosperato) lo ha fatto creando formati editoriali adattivi, come newsletter, podcast, prodotti multipiattaforma, costruendo relazioni più dirette e sostenibili con il proprio pubblico, anche fuori dai social media.
In Italia, un esempio è Will Media: un progetto che ha puntato su un tono accessibile, un’identità fluida e un sistema di contenuti distribuiti su più canali. Ma soprattutto, ha scelto di concentrarsi sul mercato italiano, evitando l'espansione internazionale. Una decisione strategica che dimostra come, in certi casi, costruire un brand forte e sostenibile all’interno di un solo mercato possa essere una scelta più solida, e più realistica, rispetto a una corsa alla scalabilità globale.
Se questa analisi ti è piaciuta, condividila con chi sta costruendo nuovi progetti digitali. O salva questa autopsia gentile per quando ti sembrerà di star facendo le cose "belle ma fragili".
Grazie mille per avermi letto fino a qui!
Mi scuso se la settimana scorsa la newsletter è saltata, ma forse è andata anche bene così. La notizia della chiusura di Freeda di questa settimana era davvero troppo interessante per gli appassionati di startup per non dedicargli un’analisi approfondita.
Ci sentiamo tra un paio di settimane, se il caldo non mi fa fuori prima!
Alessia
Grazie per avermi aiutato a inquadrare meglio ciò che è successo lato start-up. Lato contenuto posso dire che non era nemmeno “femminismo”? Mancando tutta la parte politica, direi più che erano questioni di genere - e negli ultimi post nemmeno quelle, tanto che anche sul sito si parla quasi più di “generazioni” tout court.
Analisi molto interessante e poco banale, complimenti! Nello stesso mercato Will funziona (sembrerebbe) bene, ma sopratutto (kudos) hanno spiegato anche recentemente in un video YouTube i loro revenue stream, utile per capire come stanno provando a differenziarsi. Dispiace per Freeda, molto