Anche questo mese vorrei iniziare raccontandovi cosa sto facendo in Taxfix.
Non perché voglia per forza parlare di me. Ma perché spero che spiegando i dettagli di questa mia esperienza, anche in Italia si capisca che cosa fa un product marketing manager, head of digital & growth o product growth.
Al di là del ruolo, che cambia il nome ma nella sostanza fa la stessa cosa, chi si occupa di marketing e growth in una startup con un prodotto digitale non può pensare solo all’adv e chissenefregadelprodotto.
In Taxfix abbiamo appena lanciato un’app che nasce come iterazione di una versione precedente che non aveva funzionato. Quindi, negli ultimi 10 mesi il team product ha lavorato per fare una marea di user research, user discovery, user interview, sviluppando un’esperienza completamente nuova. Erano abbastanza felici del risultato. Poi sono arrivata io che guardo ai prodotti digitali con l’occhio di marketing, il cuore su utente e dati e l’obiettivo del product-market fit e avevo un’idea diversa (ve l’ho spiegato un po’ l’altra volta). Perché?
1) L’obiettivo dei designer è creare funzionalità chiare e intuibili per l’utente.
2) L’obiettivo di product manager e sviluppatori è quello di creare codice pulito, senza bug e con il linguaggio adatto e scalabile per gestire picchi di traffico.
3) L’obiettivo di chi fa growth marketing è fare in modo che quel design e quelle funzionalità soddisfino tutti i bisogni degli utenti, affinché siano felici e soddisfatti e la loro esperienza dall’adv alla fruizione del prodotto sia ottimizzata e coerente. E il prodotto che avevo visto all’inizio per me aveva delle mancanze.
L’app di Taxfix permette di fare la dichiarazione dei redditi in modo semplice e veloce: rispondi a delle domande, carichi dei documenti, paghi e li spedisci al team fiscale che compila il 730.
Io ho scommesso che questo flusso non risolvesse tutti i bisogni dell’utente. Così, ho creato un esperimento nel sito per testare un processo di onboarding che permettesse agli utenti indecisi di capire se la dichiarazione è obbligatoria o conviene farla.
Una volta che l’utente risolve la sua indecisione, rispondendo a 5 semplici domande, può continuare nel flusso generico oppure abbandonare. Se abbandona ovviamente procedo con una vagonata di content marketing, da brava markettara.
Abbiamo lanciato questo esperimento sul sito 4 settimane fa. I miei colleghi erano scettici. Io sapevo avrebbe funzionato ma ovviamente senza test sono opinioni. L’esperimento converte tra il 25 e il 30% nella registrazione alla web app: sono dati da paura. Come benchmark vi dico che gli altri canali (paid) convertono tra il 3 e il 5% e in media nell’e-commerce siamo felici quando una landing page converte tra il 4 e l’8%.
Il product manager ha deciso di metterla tra le priorità di sviluppo per integrarla alla web app.
Questo è quello che fa chi fa growth hacking VERO.
E io sono molto felice di averlo potuto fare.
Cos’è successo nel mondo digital marketing, tech e startup in questo mese?
1) Cosa manca alle startup italiane, part #2
Nello scorso numero raccontavo alcune considerazioni sull’ecosistema delle startup italiane. Questo mese abbiamo assistito al fallimento (o all’acquisizione come l’ha chiamata qualcuno) di Oval Money, una startup italiana con cui fra l’altro avevo collaborato qualche anno fa.
Non entrerò nella polemica ma mi sono stupita che nessuno, nè giornalisti, né investitori dell’equity crowdfunding né il pubblico in generale si sia fatto LA domanda: dove sono i dati che dimostrano l’entità degli asset ceduti e quindi il valore della società?
In Italia siamo ancora qui che crediamo “alle favole” dei comunicati stampa che raccontano di fantomatici lanci di nuovi prodotti e aumenti di capitale senza il supporto di nessun dato e poi ci stupiamo se qualcuno ammette che non era un’acquisizione ma un fallimento.
Oval non è la prima, è semplicemente una delle prime ad avere ammesso che vendeva perché stava per fallire. Molte altre si sono trovate nella stessa situazione ma non hanno avuto il coraggio di dirlo, hanno semplicemente detto: “hey, ecco la exit!”.
Tanto in Italia nessuno lato stampa fa fact checking.
Il problema non è solo di chi racconta le favole. Ma di chi le scrive senza fare un minimo di analisi. E di chi investe senza pensare che le startup possano fallire.
Provando a fare una veloce root cause analysis potremmo dire che in Italia stiamo ancora qui a raccontarci quanto siamo fichi a fare gli startupper e quanto siamo bravi a creare dei brand per puro egocentrismo o per rafforzare il personal brand.
Nessuno entra nella ciccia degli insegnamenti.
Nessuno condivide cosa è stato sbagliato.
Nessuno scrive cosa farebbe di diverso la prossima volta cosìcché tutto l’ecosistema possa imparare.
Io sogno un ecosistema italiano dove ci sia un Justin Kan che non solo racconta di essere diventato ricco con Justin.tv, poi diventata Twitch e venduta ad Amazon ma che racconta in un bellissimo thread su Twitter cosa ha sbagliato quando nella sua seconda azienda ha perso 76 milioni di dollari.


2) Se sei una startup early-stage l’unica cosa che ti deve preoccupare è il product-market fit
Riprendo questo thread di Justin perché in 2 tweet da 560 caratteri non solo parla della sua storia ma racconta in modo perfetto quale dovrebbe essere il focus di qualsiasi startup early stage.
Non il business plan.
Non i canali social o i followers sui social media.
Non il fatto di creare un brand o di costituire una startup.
Non l’idea della scalabilità.
Lanciare una startup all’inizio significa focalizzarsi sul product market fit, ossia lavorare duramente su due elementi fondamentali: il prodotto (che si misura con attivazione e retention) e il target.
1) Lavorare fortemente sul target significa capire chi è il nostro cliente. Chi sono, cosa vogliono, cosa sono le loro necessità fondamentali? Quali sono le alternative che hanno a disposizione adesso e perché sono felici o infelici di usarle?
Ovviamente non serve la nostra opinione. Non interessa quello che noi pensiamo vogliano o desiderino. Ma quello che pensano e fanno davvero.
2) Lavorare fortemente sul prodotto non significa solamente creare una value proposition. Non significa nemmeno vendere. Significa metterle assieme in un prodotto che funzioni, senza bug, con un bel design, che sia un’app o un sito.
Significa capire quali sono le necessità del target e trasformarle in funzionalità che siano semplici, intuibili e che rappresentino un business e un vantaggio competitivo rispetto alla concorrenza per l’azienda. (ps: questa è una bella NSL che parla di prodotto).
Combinare questi due elementi è una delle attività più complesse per chi fa startup, già complesse se trattate singolarmente e ancora di più se aggregate.
Ma è l’unica cosa che conta se avete un’idea e la state trasformando in business.
Non capite come fare? Uccidete l’idea e continuate con la prossima.
Non tutte le idee vengono con il buco.

3) La creator economy continua a sorprendermi: cosa succederà ai musicisti?
Come forse sapete, alcune delle riflessioni qui, nascono da chiacchiere e pensieri che condivido con Diego, il mio compagno, che povero si trova a dover ascoltare i miei monologhi sulle startup. Ovviamente è stato anche dolcemente obbligato a correggere tutti i capitoli dei miei libri.
Un argomento che ci interessa molto è quello che riguarda il futuro della musica, che come tutto si sta sempre più spostando sul digitale. Anche qui ci sono enormi intermediari come Spotify, Apple e Amazon che stanno acquisendo sempre più peso nel settore grazie a streaming, concerti live e podcast. Una domanda che mi faccio quando analizzo questi cambiamenti è: meglio prima, con le case discografiche, o adesso? E dopo? Difficile da dire. Alcuni musicisti si lamentano del basso guadagno. Così Spotify ha recentemente lanciato Loud and Clear per far vedere qualche numero e sembra che 13k musicisti l’anno scorso abbiano guadagnato almeno $50k in royalties
A Neil Young non bastava, così ha venduto la metà dei diritti di tutte le sue canzoni al fondo d’investimento britannico Hipgnosis Songs, specializzato in acquisizioni in ambito musicale, per circa $50M. Bob Dylan li ha venduti tutti per $300M-$400M. “Venduto!” potrebbe ribattere qualcuno. Soprattutto se siete fan di Young e vi ricordate quando criticava i colleghi che componevano canzoni a uso commerciale nella sua canzone del 1989 “This Note’s for You”, con testuali parole: “Ain’t singin’ for Pepsi/ Ain’t singin’ for Coke/ I don’t sing for nobody/ Makes me look like a joke”.
A questo punto mi stupisco di quelli che criticano i Måneskin.
Hipnosis Songs è migliore di Spotify? Non credo. Si tratta di un fondo d’investimento specializzato in acquisizioni in ambito musicale, britannico, con sede nel paradiso fiscale dell’isola di Guernsey. “Sicuramente non sono interessati agli artisti come lo sono le case discografiche” potreste pensare. Non sono molto diverse, a dire la verità. Quella che ha acquistato i diritti di Bob Dylan è una delle più grosse, la Universal.
Young e Dylan non sono gli unici ad averlo fatto perché vicini alla pensione. Lo stanno facendo anche i RHCP e i The Killers, per esempio.
L’industria musicale è da tempo in grossa crisi, e questa pandemia ha ulteriormente distrutto il panorama dei concerti, forse l’unica fonte di ricavo per un artista.
I dischi non vendono più, e i ricavi derivanti dallo streaming sono straordinariamente più bassi di qualsiasi altra attività. Una singola riproduzione in streaming frutta all’artista normalmente una frazione di centesimo di $: Spotify, è tra quelle che pagano meno, tra un terzo e metà di un centesimo a riproduzione. Significa che un artista solista deve accumulare alcune centinaia di migliaia di riproduzioni al mese, per arrivare a uno stipendio.
Per guadagnare su Spotify $4.300 lordi servono 1 milione di streaming. Ah, dovreste raggiungere quella cifra ogni mese, specialmente se siete una band classica (voce, chitarra, basso, batteria) visto che dovrete dividere l’importo per quattro. Su YouTube le fee per gli artisti sono persino più basse.
Ma ecco che le piattaforme di streaming dinvetano parzialmente interessati per un artista, se pensiamo che 2 mesi fa Jack Dorsey, co-fondatore di twitter mette in vendita all’asta il suo primo tweet, che è stato anche il primo tweet della storia. Viene acquistato per la modica cifra di 2,9M di dollari sotto forma di NTF, Non-fungible token ossia un’informazione digitale registrata in una blockchain che associa a un soggetto un particolare diritto, come una proprietà.
Un NFT tecnicamente può contenere qualsiasi cosa digitale, come disegni, GIF animate, video o elementi dei videogiochi, è unico nel suo genere, come un dipinto o una carta da collezione, e non può essere scambiato con qualcos’altro. Il video di una schiacciata del più noto cestista dell’NBA contemporanea LeBron James è stato venduto per oltre 200 mila dollari.
Ok, ci sono ancora delle zone grigie date da una legislazione poco chiara. Ma, una domanda. Se musicisti ed artisti smettessero di fare musica per venderla e potessero mantenersi grazie alla vendita di opere in NFT avrebbe ancora senso comprarla? E le case discrografiche avrebbero ancora senso di esistere?
4) Avete sentito parlare dei med-influencer?
Non so se sia dovuto alla pandemia o al semplice fatto che per fare qualsiasi cosa oggi è essenziale curare il proprio personal branding ma mi sono sorpresa quando sui social ho visto crescere la presenza e l’influenza di una categoria professionale che non mi aspettavo di vedere: quella dei medici. A metà strada tra la Ferragni e Burioni, mi sono chiesta: perchè?
Allora, al di là di chi lo fa per pura vanità come Macrì o per ragioni commerciali come Cannizzo o Manola, la cosa più interessante dei med influencer (li chiamano anche health influencer nel mondo) è chi lo fa per creare contenuti volti alla divulgazione. Per esempio Macchione che fa l’urologo e che usa Instagram per raccontare il tema e le situazioni che si trova ad affrontare tutti i giorni con il suo profilo Md_Urologist. Ci serve davvero seguire un medico su Instagram per capire quali sono le sue opinioni e i casi attuali per affidarci alle sue cure o a quelle dei suoi colleghi? Forse no. Ma se ci possono aiutare a convincere il mondo a farsi vaccinare potrei diventare meno critica.
Rimanendo sul tema health, Google non smette mai di attirare la mia attenzione quando parliamo di criticità: com’è possibile che l’algoritmo non riesca a riconoscere la pelle non bianca in un’app per la dermatologia è davvero un’incognita non da poco.
5) Il B2B si lancia nell’ecommerce: qualche numero
Non mi ha mai fatto impazzire il B2B, a dire tutta la verità.
Ma stavo facendo un po’ di ricerca sull’ecommerce in generale e ho trovato questo insight di una ricerca di DHL che ne cita un’altra di Gartner dove al di là di tante cose ovvie, scopriamo che forse, finalmente, ci potremo liberare anche qui di agenti e commerciali. O meglio, i commerciali diventeranno sempre più account manager.
Il futuro è fatto di persone, se le aziende non iniziano a lavorare verso questa direzione, rimanendo ancorate a modi di fare vecchi e tenebrosi, a fiere commerciali e posizioni da leader di settore che non mettono i clienti al centro la vedo dura.
Voi che ne pensate?
Articolo molto interessante