Startup Stories #22
Roblox e gli user-generated games, cos'è la North Star Metric e una campagna bella
Da tre settimane sono tornata a lavorare full-time su un progetto.
Si tratta di un’app che a breve lancerà sul mercato italiano, con la missione di digitalizzare un settore in cui, al momento di digitale non c’è proprio nulla.
Una super sfida, ecco perché ho accettato.
A dire la verità ho accettato con riserva, per due motivi. Il primo è che quando l’anno scorso con tutto l’entusiasmo della Terra avevo accettato un full-time che sulla carta sembrava fantastico, e dopo i primi 4 mesi avevo già capito che le cose non funzionavano, ci sono rimasta malissimo. Ma davvero, tanto male. Il secondo è che per accettare di lavorare a questa sfida ho messo in stand-by una collaborazione con un’agenzia olandese con cui stavo lavorando davvero bene ed ero felice. Ma questo, se funziona bene come spero, è uno di quei treni che passano poche volte nella vita.
Mi ricorda quando nel 2013 ho fatto un’altra scelta che ha cambiato i successivi 3 anni. Era agosto. Avevo fatto qualche colloquio per entrare in Sony PlayStation come Digital Marketing Manager: cercavano qualcuno hands-on per il lancio europeo di PS4. “Finalmente una multinazionale, quanto l’ho sognata dall’Italia” avevo pensato, varcando la porta girevole dietro a Oxford Street.
Qualche venerdì precedente, durante un evento a Old Street avevo parlato con Joe Cross, Head of Marketing di una startup, allora molto early-stage. Si chiamava Transferwise, erano in 15 e avevano anche loro un bel progetto sulla carta: volevano aiutare le persone a rendere meno costosi i bonifici internazionali in valuta estera, e cercava un Digital Marketing Manager hands-on per il suo piccolo team. Lui era molto entusiasta e l’idea sembrava fantastica. L’unico problema è che in quei primi 11 mesi a Londra ne avevo conosciuti tantissimi come lui, con idee bellissime sulla carta: avevo già cambiato due startup, avevo sicuramente imparato tantissimo ma cominciavo a perdere qualche speranza. Le idee, le app, gli e-commerce creati da questi piccoli team avevano speranze di crescere e fare i numeri che vedevo forti e solidi nelle corporate?
Già questa per me nel 2013 era una domanda da un milione di dollari.
Senza contare i dubbi sui tempi e sulle energie necessarie perché ciò succedesse.
Nelle piccole startup in cui avevo lavorato lo stipendio era basso, valorizzato da quote societarie che non ho mai potuto vendere perché il valore era sullo zero, ma si lavorava tanto e senza orari, con tanta responsabilità.
Ho ponderato la scelta con le poche certezze e le grandi domande che avevo.
E ho scelto SONY PlayStation: era troppo ghiotta ed irripetibile l’occasione.
8 anni dopo rifletto e penso che sì, collaborare al lancio di PS4 è stata un’occasione irripetibile. Ma c’è un ma. E se avessi scelto Transferwise? Se fossi entrata come dipendente #16 seguendo in prima persona tutto quello che ho visto poi da utente?
Avrei sicuramente meno esperienza in corporate e non avrei capito che queste non facevano per me. Non avrei messo mano su un prodotto due anni prima che uscisse sul mercato come il PS VR, non avrei lavorato con community beta capendone l’importanza e non avrei imparato cosa significa creare un team cross-funzionale.
Erano entrambi due treni in corsa, ma quella volta ho scelto quello che mi sembrava avere una direzione più stabile.
8 anni dopo ho iniziato questo progetto full-time perché questa volta la scelta non è ricaduta sul treno più stabile, quella strada l’ho già provata.
Oggi scelgo il treno che corre più veloce.
La riserva rimane ma è sempre più labile.
Cos’è successo nel mondo digital marketing, tech e startup in questo mese?
1) Tutti parlano di Clubhouse ma è Roblox il vero trend, di cui nessuno parla
Se mi seguite su LinkedIn avete già visto questo grafico.
Ma molto probabilmente non avete visto questo.
E probabilmente non l’avete confrontato con questo.
Quando qualche settimana fa ho cominciato a mettere in fila i dati di Roblox, una startup che si è da poco quotata a Wall Street sono rimasta sbalordita, così tanto, che non sono riuscita ad aspettare il primo del mese per parlarne.
Dopo settimane che leggevo di Clubhouse e della sua crescita esponenziale su ogni media italiano, dalle fonti tech fino a Vanity Fair (compresi i commenti di chi si lamentava non fosse ancora su Android), mi sembrava impossibile.
Ok, Clubhouse è stato fondato un paio di anni fa, Roblox nel 2006, ma non è comunque un po’ presto per definire Clubhouse come il trend del momento?
Davvero l’idea di base è ancora quella di cercare i primi influencers come se fossimo rimasti nel 2013 su Instagram? Ma davvero nessuno aveva parlato di Roblox?
Eppure basta Google per capire la differenza nei numeri degli utenti.
Più leggevo di Roblox, più mi convincevo che in Italia il tech è diventato un argomento più da click che da analisi critica, soprattutto quando gli autori che ne scrivono sono a libro paga di media conservatori interessati più a mantenere lo status quo che ad altro.
Roblox è una piattaforma che permette agli utenti di giocare online, creando mondi. Gli utenti possono mettere in campo la loro fantasia, in un modo molto simile a Minecraft, secondo un modello che potremmo definire user-generated games.
Ma, rispetto a Minecraft comprata da Microsoft, i giochi su Roblox sono creati dagli stessi utenti ed è anche sviluppando queste idee che ci si diverte.
Gli sviluppatori nella piattaforma sono 8M, di cui 1.25M guadagnano grazie ai Robux, una moneta virtuale che serve ai giocatori per acquistare item in app (come gadget per vestire il proprio avatar) e che ha permesso a 1,250 sviluppatori di guadagnare più di $10,000 e a 300 di guadagnare più di $100,000. Se ci pensate sono numeri pazzeschi, per sviluppatori di giochi indie che costruiscono le loro idee senza grandi costi, in revenue-share.
E quindi si, l’azienda monetizza: $923M di revenue nel 2020, prev $1.4MLD nel 2021.
Chi è il target di Roblox?
Sicuramente non i figli dei giornalisti italiani che forse sono troppo vecchi per Roblox. Principalmente si tratta di ragazzini e ragazzine tra gli 8 e i 13 anni.
Il 50% dei ragazzini americani under 16 ha giocato con Roblox nel 2020. E dai feedback che ho ricevuto sembra che anche in Italia stia iniziando questo trend, spinto dalla pandemia e dalla voglia di trovarsi assieme, online, in uno spazio che non sia esclusivamente quello di una chiamata su WhastApp.
“Adopt me!” uno dei giochi di Roblox, che permette di adottare un animale virtuale, ha registrato 1.6 MILIONI di giocatori ad APRILE 2020 ed è stato visitato 20M di volte.
Ma è solo uno dei tanti.
E non fate l’errore di pensare che sia tutto qui.
Stanno arrivando i lanci esclusivi di album di pop band, i product placement di Netflix e Warner Bros, i concerti con le performance virtuali che riproducono quelle reali, e gli eventi che possono essere organizzati dagli stessi utenti.
Se l’anno scorso parlavamo delle band musicali che non aspettavano la fine della pandemia per trovare alternative ai loro concerti, un anno dopo parliamo di album che vengono rilasciati in Non-Fungible Token: la tecnologia avanza, sta a noi capire qual è quella rilevante per il nostro futuro.
2) Facebook entra nel mercato dei wearable - non ne sarei così contenta
Nel 2019 Facebook ha acquistato CTRL-Labs, una startup che lavorava nel campo dei wearable. I due co-founder entrambi neuroscienziati non sembravano lavorare al classico bracciale di tracking, c’era molto di più nella loro missione: trovare nuovi metodi di interazione uomo-macchina, al di là dell’utilizzo del semplice computer.
L’analisi delle conseguenze di quell’acquisizione rimasero sospese, fino all’annuncio di qualche giorno fa quando è uscito questo nuovo video.
Il bracciale può tracciare i segnali che il nostro cervello manda alle dita finché scriviamo, così possiamo inconsciamente convincerci che stiamo schiacciando dei pulsanti di una tastiera che non esiste davvero, una tastiera virtuale. Può persino capire e imparare quali sono le nostre velocità, spingendo le nostre dita a evitare errori e a correggerli anche senza che il nostro cervello lo capisca davvero.
E con un headset di VR in testa cosa potrebbe aiutarci a fare? Potremmo per esempio essere convinti di muovere la testa quando invece non la stiamo movendo davvero. Ecco che cambierebbe il gioco che il nostro corpo è spinto a compiere quando usiamo Oculus: non ci servirà muovere davvero nessun muscolo.
Ora la domanda è: quanti nuovi dati metteremo a disposizione del nostro amico Mark sul nostro cervello? Quante informazioni avrà a disposizione un’azienda privata su di noi? Non sono sicura sarei contenta di saperlo.
3) North Star Metric: come trovarla?
Delle metriche che monitoro e che cerco di progettare davanti a un prodotto digitale nuovo ce n’è una che mi diverte, mi incuriosisce e mi appassiona tantissimo: è la North Star Metric.
E’ la metrica più importante che definisce il successo del prodotto e del progetto.
E’ la metrica che definisce la relazione tra i problemi dell’utente che il prodotto sta cercando di risolvere, e i risultati di business di lungo periodo. Quindi, per capirci: non parliamo di metriche di marketing, di costo di acquisizione, di click ecc..
Parliamo di prodotto.
Perché la north star metric è spinta dal prodotto.
Come vi accennavo qualche nsl fa, chi fa growth si trova in mezzo tra il marketing e il prodotto: è quello l’ingranaggio da far girare tramite la chiave giusta.
La North Star Metric permette di misurare quell’ingranaggio e ci assicura non solo che la chiave giri ma che quel giro venga fatto sempre più velocemente, in modo che la crescita (growth) sia veloce.
Migliorando il prodotto, si migliora da una parte il valore che si crea per l’utente e dall’altra le performance di business dell’azienda.
Colleghi markettari, spero di non urtare i vostri principi quando dico che il marketing è solo una leva che permette di raggiungere più o meno velocemente quegli obiettivi (soprattutto se quel prodotto l’hai appena lanciato).
Se vi appassiona l’argomento o volete saperne di più vi consiglio di leggere questo ebook di Amplitude: è davvero molto fico.
4) Avete visto che i cookies spariranno? Ecco cosa significa se fate performance marketing
È di qualche mese fa la notizia bomba di Google in cui afferma verranno eliminati i cookie. Ora, si, cancella i cookie ma non ha detto che elimina il tracciamento del comportamento online.
E’ un po’ come Astrazeneca che ha deciso un rebranding guarda un po’ proprio quando anche mia mamma, che ha un passato da infermiera, quasi quasi preferiva Pfitzer.
Google continuerà a chiedere il consenso al tracciamento, tu continuerai a darglielo ma non verranno più usati i cookie di terze parti (che tanto sono anni che vengono già bloccati da alcuni browser come Safari e Brave), perché Google vuole implementare un modo tutto suo per gestire tutto ciò, modalità che si chiamerà Sandbox.
Ma non volevo parlarvi davvero di questo. Volevo parlarvi di chi soffrirà tantissimo per questa decisione: chi si occupa di programmatic.
Avete presente i banner che vi inseguono in tutto il web dopo che avete visto un certo sito? Ecco, quello è il programmatic. In genere è fatto da network che fanno proprio questo lavoro, al 99% automatizzato sui grandi numeri.
Se per noi utenti questo cambiamento avrà un impatto relativo, perché sarà più o meno la stessa cosa, quello che davvero cambierà sarà l’organizzazione dell’industria martech (marketing e tecnologia). Tutti i network che oggi cercano i cookies che abbiamo salvato nel nostro pc e quando li trovano li combinano a dei banner che poi ci rincorrono per tutto il web, avranno una vita sempre più difficile. Se già oggi uno dei loro maggiori competitor è Facebook, il loro futuro sarà composto da sempre meno certezze e sempre più analisi di probabilità: se un utente appartenente a un certo gruppo è entrato nel sito di booking, molto probabilmente vedrà il banner. La profilazione che oggi avviene in modo quasi certo grazie al cookie, domani non ci sarà più perché appunto questo cookie verrà bloccato da Google. Ed ecco che parte la domanda: come faranno a garantire le performance a chi acquista i loro spazi?
Io non ho mai amato il programmatic per due motivi:
- per iniziare a fare solo un test bisognava investire budget cospicui dalle performance a volte molto dubbie;
- le aziende inserzioniste erano come i pubblicitari degli anni ‘90, convinti di essersi costruiti una posizione di rendita inattaccabile, quando bastava una maggiore attenzione mediatica verso la privacy perché questo cambiamento avvenisse.
Consiglio non richiesto: se vi occupate di programmatic o avete grossi budget investiti che vi danno buone performance pensate a qualche piano B.
5) Le campagne offline di Bumble
Da brava performance marketer non amo moltissimo le campagne offline (quelli bravi le chiamano Out Of Home) per due motivi. Il primo è che è difficile tracciarle, soprattutto se fanno riferimento a un brand-prodotto digitale. Il secondo è che in genere costano molto e spesso portano risultati più per il brand che di traction (anche se ovviamente poi l’aumento di ricerche online del brand porta a risultati di traction).
Finché non testerò questo impatto con dati diretti in mano, rimango scettica.
E guardo a chi in questi mesi sta lavorato molto bene, sia in ottica di prodotto digitale, che di crescita, che di sperimentazione di nuove funzionalità, che di brand.
Si tratta di Bumble, l’app di dating che recentemente ha lanciato una campagna niente male con l’idea che l’utente capisca di che canzone si tratta canticchiandone il ritmo e utilizzando il nome del brand. Queste sono le campagne di brand che davvero fanno la differenza, anche per chi come me si innamora più dei numeri che dei concept.