Startup Stories #18
Parliamo di startup cresciute da 0 a 100 durante il lockdown, il fashion-tech esiste (ma non è ancora realtà) e parole per tutti.
In questi mesi, complicatissimi anche per chi come me non ha visto cambiare gran parte delle sue abitudini (a parte il fatto di aver smesso di acquistare compulsivamente voli aerei), ho osservato una caratteristica essenziale, aggregata e valida per un’ampia massa di popolazione generale. Cambiare è difficile. Difficilissimo.
“Cambiare per sempre” qualcuna delle nostre abitudini è davvero la cosa più complicata del mondo. Infonde paura, ansia, ci destabilizza.
Leggo sempre più spesso sui social media di persone e colleghi che elencando tutte quelle piccole cose che facevano quando andavano in ufficio, provano un senso di mancanza a non poterle fare più e in qualche modo si augurano che presto si possa tornare a fare quello che si faceva prima. E se invece non potessimo farlo più?
Se invece non ci fossero più le chiacchiere alla macchinetta, le cene dell’ufficio, gli eventi offline e le conferenze? E se ci fossero ma non si potessero più fare come prima?
“Che brutto” potreste dire. Sì, ok. Ma invece di lamentarci perché non pensare: cosa potremmo fare di nuovo e di bello per colmare questo vuoto?
Le piccole abitudini ci aiutano a navigare in tempi di incertezza, cercando di ricostruire il nostro spazio, come dice Annamaria Tesla in questo bell’articolo.
Quello che tuttavia mi auguro è che non ci facciamo sempre trascinare dal ricordo del passato. Abbiamo bisogno di guardare al futuro.
Iniziare a fare piccole cose nuove potrebbe aiutarci. Tanti nuovi piccoli passi verso qualcosa che ancora non abbiamo ben identificato. Senza pensare non serva. Senza chiederci perché e quale beneficio porterà. Senza combattere chi sta cercando di fare passi nuovi. Senza criticare tutto e tutti dall’alto del nostro castello di sabbia, per il gusto di puntare il dito.
Lo so, sono un’inguaribile ottimista. Ma se iniziamo a cambiare le nostre piccole abitudini, e costruiamo nel nostro piccolo qualcosa di nuovo, piano piano cambieremo anche il mondo che ci circonda.
Curva di Elizabeth Kubler Ross
Per esempio, se anche voi conoscete chi lavora con la musica, in pausa dal nuovo DPCM, perché non consigliate loro di aprire un account su Patreon e li supportate concretamente pagando i primi 6 mesi di membership per vedere i loro contenuti o organizzate un live virtuale su Veeps? Ognuno di noi può fare qualcosa di nuovo per salvare il Natale di qualcun altro.
1) Startup che crescono durante i lockdown: la svolta di Hopin
Dopo i primi 6 mesi in questa pandemia e i primi grandi eventi organizzati in modo casuale online, finalmente si fanno spazio nuove piattaforme che rendono valida questa dimensione virtuale, diventando alternative a fiere ed eventi in presenza con pari valore e significato.
Non mi riferisco solo alle esperienze online di AirBnb o Zoom, che dopo aver fatto il pieno di consensi grazie alle videochiamate ora prova a lanciarsi nel mondo degli eventi virtuali con OnZoom.
Chi lo sta facendo bene e in pochissimo tempo è Hopin, meno conosciuta ma che sta crescendo più rapidamente degli altri. Partendo da 0 all’inizio dell’anno, è salita a decine di migliaia di dollari di revenue. In 10 mesi ha chiuso un Seed round, un Series A da $6M a febbraio e $40M a giugno. Lanciata nel 2019, in questo anno ha visto quasi un milione di spettatori e 16.000 aziende, comprese le Nazioni Unite e Adobe.
Grazie alla pandemia il loro budget di marketing è stato pari quasi a zero: la domanda di eventi virtuali è così alta che il focus totale è stato rivolto al miglioramento continuo del prodotto e della tecnologia (oggi riescono a rispondere al 2-4% della domanda del mercato totale). La vision è infatti quella di creare il miglior evento virtuale per qualsiasi tipo di evento, con funzionalità che ricreano le esperienze offline come expo, la presenza contemporanea di diversi palchi e networking. Ed è proprio questa commistione tra online e offline a far scegliere Hopin alle grandi aziende e gruppi che cercano alternative a fiere ed eventi offline.
"Stiamo costruendo una soluzione che porti agli eventi online il dinamismo e l’interazione delle esperienze in presenza. Abbiamo messo assieme tecnologia, team, investitori e una user base di organizzatori appassionati che stanno aiutando Hopin a non diventare una semplice alternativa ma un modello futuro indispensabile” dice il CEO Johnny Boufarhat.
Ho usato la piattaforma un paio di volte negli ultimi due mesi e devo dire che lato utente è davvero ben fatta. Così ben fatta, che la suggerirei a chiunque avesse necessità di organizzare un evento virtuale: l’unica leva di marketing usata è infatti il passaparola di chi partecipa a un loro evento. Passaparola che per un prodotto ben costruito come il loro diventa quasi un passaparola virale.
L’avete mai usata? Ve la consiglio.
2) Startup che falliscono perché basate su un’idea non validata: Quibi
Avete sentito di Quibi? Qualche gg fa ho pubblicato una LI story che parlava del fallimento di questa startup USA che in poco tempo e prima del lancio aveva raccolto 1.75 MLD (non MILIONI).
Con tutti questi soldi, in soli 6 mesi è passata dal lancio di un'app che prevedeva la fruizione di film e serie in episodi da 10 minuti, alla chiusura.
Cos'è successo?
Leggendo il loro blog mi soffermo su 3 punti fondamentali:
1) L'idea
Nata da Meg Whitman (20 anni di esperienza in eBay e HP) e Katzenberg (co-fondatore di DreamWorks). Due persone super riconosciute nel mondo corporate. Ma le startup hanno dinamiche e meccanismi completamente diversi, e le idee non validate di chi ha 20 di esperienza non sono migliori delle idee non validate di chi ha 19 anni.
2) Il Prodotto
Hanno sviluppato "the best version of what we imagined Quibi to be".
E dov'erano i feedback di utenti e mercato?
A luglio il churn (tasso di abbandono) degli utenti che passavano dal free trial a una subscribtion paid era del 90%; da 900k di utenti acquisiti il primo mese, ne erano rimasti 70k con un conversion rate dell’8%.
La risposta a questa situazione è solo una: product iteration.
Ricordiamoci che la competizione è con chi in questi mesi ha fatto i numeri come Disney+ o TikTok. Una bella app pensata per chi passa molto tempo in metro ma se le persone cambiano abitudini e hai appena lanciato, devi cambiare con loro.
In 6 mesi se il team è bravo fa forse 2, max 3 iteration di prodotto: non arriverai mai alla "best version" in così poco tempo. Se pensi di averla raggiunta ma il mercato non è d’accordo con te, forse non era davvero il prodotto giusto, la convinzione dei founder è utile ma non basta quasi mai.
3) Il team
"Hanno aperto le porte ai più grandi talenti di Hollywood".
Puoi assumere i più bravi talenti che vuoi, ma se non c'è una vision e una strategia di prodotto le skills del team e i talenti che assumi non bastano.
Un talento da solo non fa quasi nulla, dobbiamo smettere di pensare che sviluppare una startup sia merito di uno solo.
L’hypergrowth la fa il team, spinto e coinvolto da un management in grado di vedere oltre, capace di aiutare a concretizzare le idee. Altrimenti ti schianti, talenti compresi.
3) La realtà aumentata entra (finamente) nei big brand del fashion
Lo so che da più di 6 mesi scrivo la stessa cosa e non sembra che in realtà il mercato si muova in questa direzione. Ma invece, piano piano ci stiamo muovendo. Sono iniziative frammentate, lanciate da alcune startup o alcuni brand ma la direzione che stiamo prendendo, più o meno velocemente, è quella.
L’atelier virtuale per esempio, sviluppato da alcuni designer innovativi capitanati da Jaime Perlman, ex UK creative director di Vogue con l’aiuto tech di Microsoft, che in questo video racconta come nel fashion ci sia sempre uno scontro tra tradizione e innovazione. Io aggiungerei in ogni settore economico.
Sembra una novità ma non lo è: Obsess è una startup americana che da 4 anni sta lavorando per realizzare lo store virtuale (ed ha appena raccolto nuovo capitale per un totale finora di $3.4M). Postilla: la CEO è la ex head of product di Vougue.
Per chi è fan di Ferragamo esiste invece un’app in realtà aumentata per scegliere la scarpa da acquistare, personalizzando i materiali, i colori, i dettagli e le finiture e vederla materializzarsi in 3D sul tavolo della cucina. Speriamo presto la tecnologia ci aiuti anche a capire di preciso quale numero di scarpa ci sta meglio, grazie all’analisi volumetrica del piede con i nuovi sensori Lidar integrati nelle fotocamera degli iPhone 12.
Per il momento anche solo la visual search rappresenta un passo in avanti verso un utente sempre più esigente e alla ricerca di continue novità senza muoversi da casa, che per il merchant si trasforma in +177% di conversione per l’e-commerce. Per esempio con Syte, startup di Tel Aviv che aiuta gli utenti con ricerche visuali negli e-commerce per vedere quali prodotti acquistare, quando non si ricordano il brand.
4) I team di design hanno una falla
Ultimamente ho lavorato molto in ottica design thinking (secondo il processo di IDEO), e l’ho trovato spesso in contrasto con quello che ho imparato con le startup, dove invece contano più le sperimentazioni e le analisi.
E ho cominciato a farmi un po’ di domande per capire quale fosse la differenza.
Quando mi occupo di Lean design non parto dalla ricerca e dalla progettazione dell’esperienza, parto dalla validazione dei bisogni che solo in seguito si trasformano in validazione della soluzione e progettazione della stessa. L’obiettivo del designer è invece quello di progettare per tutti, mettendo al centro l’utente e la sua osservazione. Mi sono chiesta: com’è possibile che ciò avvenga nel modo ottimale? Dipende tutto da chi la fa. E se la maggior parte dei team di design è composto da soli bianchi non c’è un voler pretendere di saperne più e meglio degli altri?
Un sondaggio pubblicato nel 2019 ammette che il 71% di chi lavora nel settore è bianco: solo il 9% è asiatico, l’8% latino ispanico e il 3% africano americano.
Le donne sono in maggioranza, contano per il 61% ma le disuguaglianze aumentano quando guardiamo ai ruoli decisionali e i ruoli di leadership. Solo il 29% degli art director sono donne e se ci spostiamo verso l’alto, quella percentuale diminuisce.
Il design è ancora un settore guidato da uomini bianchi.
Quindi?
Le soluzioni progettate da chi ha una prospettiva limitata alle sole “esperienze standard” non saranno soluzioni progettate davvero per tutti, perché come succede per la tecnologia e i software, anche qui, nelle osservazioni si annidano i biases, modi di pensare automatici e stereotipi che purtroppo il processo di design aiuta a rafforzare.
Se sappiamo che è necessario mettere l’utente al centro, sappiamo anche che prima di iniziare qualsiasi processo di progettazione è necessario essere empatici: dobbiamo metterci nei panni dell’utente il più possibile.
Questa osservazione del comportamento dell’utente ci fa pensare quindi, che qualsiasi designer possa progettare per chiunque, bastaosservare il comportamento dell’utente.
Ma potrebbe non essere così vero. Se progettiamo per qualcuno che ha stili di vita, esperienze, genere e status sociale diverso dal nostro e lavoriamo a un’esperienza basandola sulla sola interpretazione dei suoi bisogni, come facciamo a essere sicuri non ci siano bias? Quando ascoltiamo qualcuno parlare o ne guardiamo le azioni, la nostra interpretazione degli eventi è sempre, sicuramente biased.
Ecco perché ci sono software di riconoscimento facciale che non riconoscono i neri.
E perché Alexa fa fatica a riconoscere le voci femminili.
Se il problema è complesso il processo di design thinking non può essere la sola e unica soluzione, soprattutto quando il team di chi dovrebbe progettare queste soluzioni non è così diverse e rappresentativo di tutte le voci in essere.
Tornando alla domanda iniziale, quindi, penso che l’idea che possa bastare un unico processo per progettare nuove soluzioni sia sbagliata. I numeri aiutano anche i designer. I dati aiutano a sperimentare e a mettere in discussione una visione, rendendola più comprensiva, senza fermarci a quello che secondo loro sia giusto o sbagliato.
Conclusione forte: IDEO è meglio che continui a elargire corsi perché il designer soprannaturale è in via di estinzione (ps: designers in realtà vi voglio bene, parliamone.)
5) Adottare una comunicazione inclusiva non è una paranoia
Se mi seguite su LinkedIn sapete che lì è nata una discussione piuttosto accesa sul tema inclusività e sessismo. Spesso non ce ne rendiamo conto perché “abbiamo sempre fatto così” ma lcune parole, anche se non lo pensiamo, anche se crediamo facciano ridere, in realtà enfatizzano dei pregiudizi e quando questo succede, ahimé si tratta di sessismo.
Non è un’opinione, non è un eccesso di politically correct, è davvero questione di rispetto: ci sono studi, richerche, enti che nel mondo vigilano sul contenuto etico della pubblicità per evitare che nel 2020 si ricorra a beceri pregiudizi pur di vendere. Esempio: queste sono state bloccate in UK nel 2019, l’autorità che ci lavora è questa.
Ora, lo so che per tanti sembra stupido, banale o viene facile pensare che siano altri i problemi che affliggono il mondo. Ok, posso essere d’accordo con voi.
Ma prima leggete questo pezzo. Ho chiesto a un copywriter che stimo parecchio che cosa ne pensa sul tema. Non solo quello che produciamo come pubblicitari ha un impatto sul mondo che ci circonda, ma anche quello che scriviamo. Lui è Maurizio Landini, lo stimo parecchio, è davvero molto bravo e tra le altre cose sta anche cercando una nuova oppportunità lavorativa. Seguitelo, sono sicura troverete dei bei spunti.
Se invece siete dei designer questo è un bel progetto che cerca di far pensare sulle parole che incitano al bullismo partendo dal font che usiamo. Provare per credere.
E’ tutto per questo mese, spero che la newsletter vi piaccia e che la condividiate con chi potrebbe trovare spunti interessanti.
Se avete domande o considerazioni, rispondete a questa email.
Ci sentiamo per l’ultimo mese di questo 2020!