Forse non lo volevamo davvero, ma settembre è arrivato e con lui sono tornate tutte le preoccupazioni dell’autunno. La cosa bella è che mancano 4 mesi alla fine di questo anno un po’ strano e possiamo iniziare a sperare che il 2021 sarà migliore. Portiamo ancora un po’ di pazienza, se non sappiamo davvero dove sbattere la testa. Oppure continuiamo il nostro percorso con passione e costanza, perché questo 2020 strano ci ha dimostrato che in un battibaleno tutto può cambiare.
Come?
Le zin online (ve le ricordate?) tornano a essere più importanti dei giornali solo che prendono la forma di newsletter.
E persino quelle tecnologie che tempo fa avremmo guardato con una faccia a metà tra un sorriso sornione e una battuta sarcastica hanno la loro utilità quando cambiano i contesti.
La mia vita intanto procede, sto aspettando che vengano pubblicate alcune interviste che ho fatto ad agosto, sto scrivendo un pezzo sul perché forse la mia startup non la costituirei in Italia e sto aspettando nuove idee per riprendere la mia rubrica #startupWTF.
L’8 settembre potete sentire la mia intuizione geniale ospite di quella personcina speciale che è Alessia Musi se vi registrate.
Casa a Milano è quasi pronta e non vedo l’ora.
Ora possiamo parlare dell’argomento principale che volevo trattare questa settimana. Vamos!
Cosa significa lanciare all’estero?
Nelle ultime settimane e mesi ho lavorato ad alcuni progetti molto interessanti.
Per un paio l’obiettivo era un lancio estero, in un Paese dove l’azienda al momento non era ancora presente.
Due aziende diverse con prodotti diversi per le quali ho svolto attività diverse con team diversi. Questa diversità mi ha fatto riflettere sul significato di questa attività.
In una di queste non abbiamo lavorato a una vera strategia perché volevamo sondare il terreno e validare, con una serie di test e ipotesi, cercando tramite esperimenti il target giusto. Nel secondo caso abbiamo invece elaborato una strategia che andremo a eseguire per portare a casa i risultati.
Quale dei due approcci è giusto e quale è sbagliato? Non credo di avere una risposta. Ci sono alcuni progetti dove ha senso usare il primo metodo e altri dove ha senso seguire il secondo.
Riflettevo sul fatto che ho passato un sacco di tempo a pensare a quale approccio fosse giusto eppure entrambi questi approcci sono solo un mezzo.
Non basta definire e sviluppare la strategia giusta per andare all’estero.
Sviluppare la strategia giusta è solo il primo pezzettino di una serie di attività molto più importanti e strategiche che riguardano l’intera organizzazione e che spesso vengono date per scontato.
Ne analizzo 3:
1) Conoscere il mercato: scegliere la strategia giusta non ci fa automaticamente conoscere le abitudini del mercato in cui vogliamo entrare. Sapere che in Germania si spende 5-7 volte quello che si spende di acquisizione in Italia e in Spagna 3 volte tanto è utile per raggiungere l’obiettivo ma se non sappiamo come chiudere quei lead o come migliorare la retention non è un’informazione davvero utile.
Quando andiamo all’estero i contatti, le aziende, gli utenti hanno approcci molto diversi rispetto a quelli a cui siamo abituati. Banalmente, se a Londra non rispondiamo a un’email o una richiesta di un utente entro 24/48h li abbiamo persi. Sì, davvero.
2) Conoscere la cultura del Paese dove si vuole lanciare: strettamente collegata alla precedente ma ho voluto tenerla separata perché conoscere la cultura di un Paese è ancora più difficile. Per esempio se a Londra arrivate in ritardo ai meeting siete fuori dai giochi. Se glissate una deadline preparatevi a sviluppare feature gratis. Se vi chiedono presentazioni e voi raccontate la storia dell’orso fate a meno di mandare il deck perché non vi chiameranno mai più. Insomma, il cielo bianco/nero di Londra la fa da padrone anche nel business, è essenziale sapere quali sono le caratteristiche culturali perché se con la strategia vi può andare di culo, non conoscere le sfumature culturali significa schianto sicuro al primo tentativo di execution.
3) Strutturare l’azienda per il post-lancio: creare un team ad hoc e scegliere chi ha un approccio native, gestire le richieste estere ad hoc per quanto riguarda prodotto e marketing rispetto alla country of residence, definire obiettivi realistici, sono tutte attività essenziali da pianificare oltre alla strategia di lancio. Non averle chiare significa non essere in grado di cogliere quelle sfumature che fanno davvero la differenza.
Come fare test & ipotesi?
1) Le landing page brutte e le icone peggiori posso essere le migliori a convertire
Qualche giorno fa ho letto questo tweet che mi ha fatto sorridere.
Se avete letto il mio libro Startup Marketing saprete che per me brand e design devono essere funzionali all’obiettivo: è utile spendere 16 ore a lavorare su una landing page o sull’icona di un MVP quando non sappiamo quali saranno le performance del test? Non credo.
Ovvio non devono fare schifo, non sto dicendo quello, ma per la mia esperienza rimangono elementi secondari, soprattutto perché non sappiamo quanto il test rimarrà live e quale sia l’UVP e la target audience.
Cos’è la Value Proposition e a cosa serve
La UVP è la componente essenziale, quella che spinge la conversione.
E la Value Proposition è indissolubilmente legata alla target audience: non è solo il design a convincere qualcuno a convertire.
Sono la rilevanza e la chiarezza della comunicazione a permettere di scacciare ansia e distrazioni, vere frizioni per la conversione. Quindi, sì, le landing page un po’ brutte possono convertire se il target non è influenzato dalla bellezza.
Consiglio di non usarla come scusa.
2) Un MVP può essere un gruppo WhatsApp?
Un gruppo WhatsApp può diventare un luogo dove validare un’idea e imparare moltissimo sui bisogni dei propri utenti.
Una bella storia di validazione che vi consiglio di leggere e che racconta come un ex PM di N26 con un’idea ha raccolto dati e feedback tramite un gruppo whatsapp.
Appendice: siete bravi a gestire ambizioni e aspettative?
Ho risposto così su LinkedIn nella discussione di qualcuno che qualche settimana fa chiedeva perché i giovani vanno all’estero. Chi all’estero ci ha vissuto mi ha detto che riassume perfettamente il punto di vista.
In 8 anni a Londra ho imparato che è giusto essere ambiziosi. Tuttavia non ho mai avuto aspettative sugli altri che non fossero obiettivi quantitativi e qualitativi. Soprattutto se questi “altri” erano persone del mio team.
Devo dire la verità: non ha fatto benissimo alle mie capacità relazionali ma gli inglesi, dato che non sono bravi a gestire i rapporti sociali, si danno delle regole abbastanza facili da seguire, che permettono a tutti di capire come relazionarsi.
Da quello che ho capito in questi anni a Londra, le tue ambizioni sono realistiche se coincidono con le aspettative che gli altri hanno di te. Per esempio se vuoi diventare un/una bravissimo/a consulente lo diventi se questo è quello che anche gli altri si aspettano da te.
Ho imparato a farlo anche io ma cosa succede alle tue ambizioni quando gli altri non hanno aspettative verso di te o peggio non ti vengono condivise?
E quali sono gli elementi culturali, personali e sociali che influenzano le nostre aspettative quando queste non sono esplicitamente condivise?
Mandatemi le vostre riflessioni please che in questi mesi è difficile confrontarsi e il mio cervello soffre.
Una newsletter veloce per accompagnarvi al rientro in ufficio.
Ci sentiamo il prossimo mese, mandatemi i vostri feedback :)
Alessia