Questa settimana, amici ed amiche, parliamo di fallimenti.
La settimana scorsa infatti, ho visto un commento di qualcuno che diceva: perché non raccontare anche qualcosa che va male e non solo se e quando va bene, in una newsletter?
Innanzitutto perché non è facile ammettere i propri sbagli e le proprie fragilità.
In Italia funziona meglio celebrare le vittorie e nascondere gli sbagli.
Ho visto davvero pochi ammettere l’errore, anche davanti all’evidenza.
La paura del giudizio che spesso è positivo o negativo, senza sfumature di grigio, ci spinge a evitare di esporci. Non vorrete rischiare di essere etichettati come falliti, vero?
Eppure, se uscissimo dalla nostra bolla culturale nazionale scopriremmo che sbagliare e fallire non solo è umano, ma ci fa imparare più velocemente di qualsiasi altra cosa.
Lavorando per anni nel mercato anglosassone ho imparato che mettere a cv dei fallimenti permette di essere considerati meno rischiosi, perché a volte è solo grazie a errori e fallimenti se arriviamo a costruire successi e vittorie.
Quella startup fallita miseramente è la mia
La mia prima startup era partita nel 2010 da una mia idea, quando non c’erano smartphone e il digitale era ancora quello del blog.
La seconda non era una mia idea, mi ero aggiunta al team di founder un anno dopo, dato che avevo lavorato ed ero appassionata a qualcosa di simile, ma anche quella dopo poco è morta.
Ovviamente non sono l’unica a cui è successo, anche a Luca che l’ha raccontato in modo molto diretto e onesto qui.
Non serve essere founder per vedere una startup fallire.
Nella mia carriera ho rischiato molte volte di entrare nei team di startup che sarebbero fallite poco dopo, come questa. O di entrare in startup che in 9 mesi hanno fatto il botto con una exit, come Rentecarlo.
In altri casi ho deciso di non entrare in altre che invece qualche anno dopo sarebbero diventate unicorni. Non esiste la sfera di cristallo, purtroppo.
La scommessa che fa il dipendente quando sceglie la startup in cui andrà a lavorare è la stessa che fa chi la lancia: rischiare (e fallire) fa parte del gioco.
Il fallimento succede a molte altre startup che lanciano nuovi business in settori che non esistono: il 90% fallisce. Non dovrebbe essere un fattore penalizzante, a priori.
Questo è un bel database di storie e di “lessons to learn” dagli errori degli altri. Per esempio c’è la storia del fallimento di uno dei primi social network, perché non è vero che chi arriva prima nel mercato con una novità sarà anche chi farà successo.
La mia prima startup
Era l’estate del 2010, da lì a poco avrei iniziato un master in Innovazione d’Impresa che mi avrebbe fatto capire cosa significava fare strategia e creare business plan.
Suonavo in un gruppo rock, ero parte di una community di persone creative che creava cose nuove nei propri ritagli di tempo, nei weekend o quando tornava dal lavoro, proprio come io creavo le mie canzoni. Il mio gruppo non aveva problemi a trovare date e pub in cui esibirsi, non lo sapevo ancora ma avevamo fatto scelte di marketing di tutto rispetto a partire dal nome: “Le Doppiepunte” che ci aveva permesso di costruire un brand forte in una nicchia di musica propria alternativa.
Gli artisti che frequentavo invece non sapevano dove esibire le loro opere.
Per cui, durante un aperitivo con il titolare del pub in provincia di Vicenza dove passavamo quasi tutti i weekend, ho pensato: e se organizzassimo una festa mettendo assieme artisti self-made di diverse discipline facendo diventare questo bar una galleria d’arte per una giornata?
Il titolare ha subito detto di si, d’altra parte lui non aveva niente da perdere.
Gli amici artisti con un po’ di timore iniziale hanno detto che sì, sarebbero stati interessati a esporre le loro opere in questo bar di provincia. Ero sicura il pubblico ci sarebbe stato poiché già veniva ad ascoltare i concerti. Dopo qualche settimana c’era un mini team di 5 persone che si era reso disponibile per organizzare la festa e legarla a un nome, preparare le locandine, creare il sito e il logo, definire la parte artistica con gli artisti e quella musicale con gruppi e DJ. La macchina era partita ma nessuno di noi aveva pensato che in futuro questo potesse diventare un business.
La prima festa qualche mese dopo fu un successo.
Se dovessi usare un termine da startup per definire quello step: avevamo validato il concept, funzionava.
Avevamo trovato il nome per il progetto: Questa Non È Arte.
Ogni festa avrebbe avuto un titolo particolare per legare artisti, musica e pubblico e creare maggiore coinvolgimento.
Questa prima edizione avrebbe avuto come tema “I 5 sensi”.
Poi sarebbe arrivata l’edizione sui “7 vizi capitali” e quella sulla “Fine del Mondo”.
Ogni edizione richiamava un pubblico sempre più ampio nello stesso pub.
Non abbiamo mai chiesto un euro per il nostro lavoro, che diventava sempre più cospicuo, un errore fatale.
Il pub ci metteva a disposizione i materiali per la festa ma noi nel frattempo avevamo creato un blog per raccontare le feste, le esperienze degli artisti e creare una community, affinché il nostro pubblico potesse rimanere coinvolto tra una festa e un’altra. Passavamo molto tempo a curare e condividere questa attività editoriale senza capirne il valore.
Il team dopo la prima edizione si era spaccato ma si riformava con nuove persone per ogni festa. Non ci sembrava fosse un problema, ma così il lavoro principale rimaneva sulle spalle dei fondatori (io e il mio compagno) senza una vera evoluzione del progetto, perché ci ancorava a rimanere nello stesso posto dove avevamo chi lo conosceva e chi ogni anno decideva di aiutarci.
Al di fuori di quel bar saremmo stati soli, non c’era un vero team, altro errore.
Quando nel 2012-13 siamo andati a vivere a Londra il progetto è venuto con noi.
All’inizio abbiamo cercato di trovare partnership per entrare in quel mercato artistico che non conoscevamo e che non sembrava avere lo stesso problema che avevamo visto a Vicenza.
A Londra c’erano tanti artisti che riuscivano a vivere di arte, mostre e gallerie di qualsiasi tipo per le opere di qualsiasi livello artistico, dagli studenti ai professionisti.
Siamo entrati in un network di gallerie internazionali che combinava artisti emergenti in mostre ad hoc e che quando ha saputo della nostra community emergente ne è rimasta subito entusiasta.
Assieme abbiamo organizzato una prima mostra itinerante su 3 Paesi con artisti di 3 community (The Hague, Londra e Vicenza) che in termini artistici è stata un successo ma a livello di modello di business tentennava. Avevamo tutti chiesto una fee agli artisti per partecipare, tuttavia, gli artisti della nostra community che non erano professionisti facevano fatica a investire su iniziative simili. Inoltre non potevamo promettere che avrebbero venduto le opere della mostra e che quindi sarebbero rientrati dell’investimento iniziale.
Abbiamo continuato a lavorare sulla parte editoriale creando un mini team e una nostra community London-based che potesse allargare quella vicentina con contenuti in inglese. 4 anni dopo conoscevamo molti artisti e quindi abbiamo pensato: testiamo una nuova festa?
Volevamo permettere lo scambio e la contaminazione Vicenza-Londra per cui ci fu una pre-festa in un bar a Vicenza a settembre 2017 e la festa a Londra a novembre 2017. L’abbiamo chiamata Liminal Boundaries per enfatizzare lo scambio che volevamo creare e a Londra l’abbiamo organizzata in un pub dietro casa con le stesse caratteristiche di quella vicentina: free entry, una mini-fee concordata con il pub per farci pagare i materiali, volontari per allestimento e coordinamento.
Il pub dalle 17 a mezzanotte era gonfio di persone che ballavano, guardavano e acquistavano le opere degli artisti con background da tutto il mondo.
Liminal Boundaries fu un successo.
Anche se non venne nessun artista da Vicenza.
Questa è stata l’ultima festa di Questa Non È Arte.
Qualche mese dopo molti artisti e volontari non ci risposero più alle email: non saremmo riusciti a creare contenuti sulla festa.
Sembrava funzionare ma non sapevo come portare avanti il progetto. Avevo un’idea di creare un e-commerce con le opere che gli artisti preparavano per le feste ma avevo sempre meno tempo e sentivo che non stavo imparando molto, rispetto alle startup con cui lavoravo a Londra.
Non c’era un modello di business, troppe idee sul piatto e nessuna forte convinzione. Non riuscivamo a capire come monetizzare. Gli artisti non erano molto affidabili, l’avevo visto ai festival, temevo l’e-commerce non avrebbe funzionato. Inoltre non riuscivamo a creare un team di persone coinvolte.
Nel 2018 abbiamo fatto morire tutto.
La mia seconda startup
Il secondo caso che vorrei raccontarvi qui nasce parzialmente da me. Quando nel 2012 arrivo a Londra e dopo alcuni mesi di ricerca e formazione trovo la startup che mi offre un contratto non è in realtà un progetto che mi entusiasma.
Sono contenta ma voglio qualcosa di più.
Conosco un team di founder italiani che sta lavorando a una startup sulla sostenibilità molto più interessante. Fra l’altro era un’idea che stavo coltivando anche io legata a Questa Non È Arte: un marketplace di arredamento fatto con materiali di recupero.
Avevano già creato una community di artisti e artigiani basati principalmente in UK che producevano pezzi unici e stavano lavorando all’e-commerce. Il rischio era minore rispetto a quello che vedevo nella mia community di artisti perché combinavano artigiani con negozi fisici già attivi o aperti su Etsy.
La difficoltà consisteva nell’aggregarli e nella distribuzione delle opere/prodotti.
All’inizio lavoravo con loro nelle sere e nei weekend perché avevano zero budget. Stavano lavorando a un seed round.
Io ero contenta perché potevo imparare al doppio della velocità, lavorando in contemporanea a due progetti, su un’idea che mi coinvolgeva. In poco tempo abbiamo creato un sito su Wordpress e ho imparato a conoscere tutta la parte di performance marketing basata sui dati con la strategia acquisition B2C che fino a quel momento mi mancava.
Ho lavorato per creare la community di consumer sensibile al tema sostenibilità e un brand riconoscibile.
Abbiamo creato eventi, pop-up e partecipato e organizzato Meetup.
Abbiamo lavorato a Video educativi su Youtube, contenuti originali sui social, fiere digitali second-hand, guide per far capire la sostenibilità di questo tipo di prodotti.
Abbiamo raccolto un mini-seed e sono diventata co-founder.
Purtroppo le vendite non entravano in un trend crescente.
E questo scoraggiava investitori presenti e potenziali verso il nostro modello di business, basato su una commissione dalle vendite sull’e-commerce.
Alcune nicchie di mercato presentavano una sensibilità su questo tema ma NON vendevamo una soluzione perfetta per un problema esistente e immediato.
Avevamo un problema di modello di business ed eravamo troppo in anticipo rispetto al trend che sarebbe emerso solo qualche anno dopo in modo massiccio.
Tra luglio e agosto del 2013, dopo quasi un anno, l’abbiamo fatta morire.
7 cose che ho imparato da questi fallimenti
Grazie a questi e molti altri fallimenti che ho visto ma vissuto meno in prima persona ho imparato tantissimo. In particolare mi sono portata a casa queste lezioni che ho continuamente applicato negli anni successivi:
Non serve cercare di far funzionare una startup per anni se dopo poco vedi che nonostante tutto il lavoro i potenziali customer non sono davvero interessati. Meglio un pivot veloce che una lunga agonia.
Non c’è un problema forte che stai risolvendo con il prodotto o servizio, e quindi i potenziali customer non aprono il portafoglio con entusiasmo. Vendere un’aspirina non è uguale a vendere un integratore o una vitamina.
Pensa quasi subito a un forte modello di monetizzazione: non è un tema a cui in Italia e in Europa si può pensare in futuro. Non siamo negli USA o Facebook :)
Circondati subito di persone appassionate al progetto che entrano nel team, con competenze diverse che ci lavorano attivamente e ascolta i loro feedback.
Testa le tue opinioni e quelle degli altri, non farti guidare dal tuo gut-feeling. Se in Questa Non È Arte avessimo testato tutte le opinioni sono sicura non sarebbe andata così.
Non farti spaventare da un eventuale pivot. Sono tantissime le scale up fighe nate da pivot dell’idea iniziale. Cambiare idea non è un problema ma parte della soluzione.
Non ascoltare solo il tuo ego, non avere timore dei giudizi degli altri e continua a criticare te e il progetto: solo in questo modo riuscirai a evitare di entrare nel deserto del fallimento.
Cosa ne pensate?
Qualche altro learning da aggiungere?
Segnalatemelo nei commenti e condividete queste storie con chi pensa che fallire sia il vero problema di chi fa startup.
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Ci sentiamo la settimana prossima, fatemi sapere quali sono stati i vostri fallimenti e cosa avete imparato, se vi va. Non lo divulgherò ma mi sentirò meno sola :)
Alessia
Veramente interessante vedere e leggere il pensiero che hai sviluppato "dietro" alle tue decisioni.
Concordo a pieno che Fallire è Imparare, sempre.
Come mi diceva spesso un mio vecchio Area Manager: "Magri. L'Ego te lo devi mettere nel ....!" :)
Le cose è difficile che vadano meglio domani, quindi non avere paura di fare un Pivot ragionato al più presto.
Una cosa che ho imparato sulla mia pelle nella mia vecchia Web Agency: "fai società solamente con persone con cui andresti in guerra." Non so dove ho sentito questa frase ma secondo me è veramente fondamentale, soprattutto nel mondo StartUp. E mi avrebbe risparmiato in partenza tante smusate.
Buona settimana.